Il tempo passato davanti allo schermo non è così pericoloso come viene spesso indicato. Sono sempre più frequenti le ricerche scientifiche a riguardo che concludono operando un’importante distinzione tra quella che è la quantità e quello che è il tipo d’uso che si fa dello strumento tecnologico.
La questione dello Screen Time (ovvero il tempo passato davanti allo schermo) in età evolutiva è ormai oggetto di grande interesse da diverse prospettive, tra cui quelle della pediatria, della neuropsichiatria infantile, della psicologia evolutiva e della psicologia clinica. Tali campi hanno sicuramente dei punti di contatto e importanti sovrapposizioni e non possono essere inquadrati come compartimenti stagni. In ogni caso, qualsiasi fenomeno in campo evolutivo ha bisogno giocoforza di tempo per essere opportunamente indagato e le conclusioni possono anche arrivare a contraddirsi se non si ha chiaro per primo cos’è e come va inquadrato l’oggetto dello studio.
Nelle mie formazioni mi ritrovo spesso a ripetere quanto gli strumenti tecnologici collegati a internet siano potenti, nel senso che permettono di fare moltissime cose e in maniera relativamente semplice. Possiamo usarli per entrare in contatto con altre persone, e abbiamo numerosissime alternative per farlo, possiamo usarli per accrescere le nostre conoscenze, e abbiamo tantissime alternative anche in questo caso, possiamo usarli per intrattenerci, e qui le opzioni a disposizione sono pressoché innumerevoli, e mi sto limitando a dividere la materia per categorie già di per loro gigantesche.
Parlare di Screen Time come se avessimo a che fare con un elemento indivisibile è terribilmente grossolano e quasi disonesto.
Se la ricerca fa dei timidi passi in direzione di una differenziazione tra gli usi senza basarsi esclusivamente sul fattore tempo, resta molto facile per chi si proclama esperto promuovere l’idea di una tecnologia dannosa di per sé o quasi.
Se volgiamo lo sguardo alle autorità competenti in materia, come l’OMS osserviamo un atteggiamento poliedrico, proprio perché la questione è molto complessa. In particolare, risalgono al 2019 delle linee guida circa la prima infanzia (0 – 5 anni) che parlano di Screen Time come alternativa nociva e da evitare all’attività motoria, come se la questione del tempo passato davanti allo schermo fosse principalmente una problematica rispetto alla sedentarietà che impone. Ed è un ragionamento assolutamente appropriato per l’età presa in considerazione. Allo stesso tempo possiamo dirci che, se ha senso parlare di Screen Time rozzamente inteso quando ci riferiamo a bambini e bambine che possono fare un uso comunque limitato di tali tecnologie per via del loro stadio evolutivo, diversamente diventa una faciloneria adoperare questo concetto alla stessa maniera per adolescenti che già da anni utilizzano lo smartphone e gli altri dispositivi a schermo.
Sempre nel recente passato, L’OMS ha inserito nell’ICD (la classificazione internazionale delle malattie) giunto alla sua undicesima revisione, il “gaming disorder”: la dipendenza da videogiochi. È stata una scelta contestata da larga parte della comunità scientifica che si occupava della materia, poiché basata su dati ancora acerbi, oltre a intravederci il risultato dell’influenza politica di paesi asiatici dove la problematica di un cattivo uso dei videogiochi è ancora più sentita che in occidente.
Solo poco tempo dopo, durante il primo anno di Pandemia da Coronavirus, con una mossa che fu letta come contraddittoria, l’OMS con alcuni partner dell’industria dei videogiochi, promosse la campagna di sensibilizzazione “Playing apart together” con la quale invitava i giovani a giocare online per socializzare, piuttosto che incontrarsi dal vivo col rischio di trasmettere il virus. Non dovrebbe stupire dato che un filone di ricerca sta evidenziando come un uso appropriato di social network e gli altri strumenti di contatto online favorisca l’instaurarsi di reti amicali più ampie.
Il timore nei confronti di una tecnologia che rapidamente entra a far parte del quotidiano delle persone non è una novità e rischia di distorcere la prospettiva da cui partono gli sguardi di tutti, educatori, genitori, esperti e ricercatori compresi. Tramite il bias (distorsione) di conferma siamo tutti naturalmente portati a cercare i dati che confermano i nostri pregiudizi, nonostante magari ci siano dati che indicano l’opposto, che suggeriscono una realtà più complessa (spessissimo) o che offrano semplicemente informazioni molto più interessanti. Volgendo lo sguardo al passato, osserviamo come i Greci antichi temessero l’alfabetizzazione dei più giovani, che sarebbero diventati più inclini alla ribellione; come gli Europei del 1700 fossero spaventati da quanto i giovani passassero il proprio tempo a leggere, rischiando di diventarne dipendenti; come gli esperti di puericultura della prima metà del ‘900 accusassero la Radio di “rapire” i bambini incantandoli; e come altri esperti -ancora in circolazione- coniarono la parola “teledipendenza” per riferirsi alla televisione.
Si parla in questo caso di panico morale ed è una strategia molto efficiente perché permette di fare presa su grossi gruppi di persone mostrando loro qualcosa di sconosciuto e/o nuovo e additandolo come molto pericoloso, il bias di conferma farà il resto del lavoro.
Quali sono le certezze che ci restano dunque?
C’è un’associazione tra l’uso della tecnologia digitale e varie problematiche psicologiche, ma è una correlazione scarsa. Vuol dire che il nesso è debole e riguarda pochissime persone. Ci sono altre correlazioni interessanti, come il fatto che la tecnologia online abbia protetto ampie fette di adolescenti dalla solitudine durante i lock-down, o come chi gioca a determinati videogiochi sviluppi competenze trasversali come la risoluzione dei problemi più efficacemente di chi non gioca, e numerose altre, ma queste sono materie di indagine per chi maneggia numerosissimi dati.
A noi che abbiamo a che fare con numeri di giovani che non possono fare statistica resta la questione più importante di tutte, il passaggio dal giudicare l’uso e il tempo di utilizzo, all’interessamento verso l’effettivo valore e i modi d’uso dello strumento.
Se seguiremo la linea d’azione promossa dal giudizio, è probabile che otterremo chiusura e mistificazione, come si può aspettare chiunque trasformi i rapporti in dinamiche di controllo; se invece adotteremo un agire in linea con l’avvicinamento, sarà più facile instaurare un dialogo in cui si potrà ricevere informazioni e dare indicazioni, a partire dalla prospettiva di un adulto la cui esperienza ha un valore applicabile anche laddove la tecnologia ha fatto dei passi in avanti.
Bibliografia e sitografia
onlinelibrary.wiley.com
journals.sagepub.com
journals.plos.org
sciencedirect.com
nature.com
thelancet.com
Dr. Marco Di Campli
Psicologo Psicoterapeuta a Verona VR